Evoluzioni - Gennaio 2023
di Baboon
26/01/2023
Neuromarketing: cos’è e come agisce
Perché il consumatore ha scelto proprio quel prodotto? Quale è stato il suo coinvolgimento emotivo? Quali decisioni prenderà in futuro?
Il neuromarketing, termine coniato da Ale Smidts nel 2002, è una disciplina emergente che deriva dall’applicazione delle conoscenze e delle pratiche neuroscientifiche al marketing, allo scopo di rispondere a domande come queste, analizzando i processi inconsapevoli che avvengono nella mente del consumatore, che influiscono sulle sue decisioni di acquisto e sul coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand.
Questa disciplina permette di creare campagne di marketing sempre più efficienti e puntuali, aumentando le vendite e abbassando i costi per l’azienda.
I consumatori durante tutta la giornata sono sottoposti a continui stimoli da parte dei brand, non solo pubblicità, ma anche design che ricordano prodotti, stimoli all’interno di film, serie tv e trasmissioni televisive, che influenzano la scelta di acquisto.
Il neuromarketing si può utilizzare anche per migliorare i risultati di un e-commerce o altra attività di vendita. Ci sono, infatti, una serie di tecniche di neuromarketing a cui qualunque azienda può ricorrere, come:
- Il principio di scarsità: viene applicato quando in un e-commerce compare una scritta sotto un prodotto che recita “disponibilità limitata” oppure “ne rimangono ancora due” e così via. Questi messaggi mettono fretta poiché creano un senso di urgenza e la persona tende a decidere in breve tempo per non perdere l’occasione.
- La validazione sociale: emerge quando una persona legge le recensioni di un prodotto prettamente positive e decide di acquistarlo, oppure quando sull’e-commerce viene mostrata una sezione con i prodotti più acquistati dagli altri utenti o quelli che sono piaciuti di più. Lariprova sociale è una leva davvero forte e questo lo sanno bene i principali e-commerce del mondo dove non mancano riferimenti alle scelte degli altri consumatori e feedback di ogni genere, tra recensioni e stelline per incoraggiare i clienti a fare la stessa scelta di chi ha già acquistato il prodotto.
- Il principio di contrasto: secondo questo principio, il commerciante propone prima il prodotto che costa di più al potenziale cliente e in seguito un altro che costa meno, con l’obiettivo che acquisti proprio il secondo perché le persone sono più propense ad acquistare un prodotto che costa meno se prima ne hanno visto altri più cari. Questo principio può anche essere applicato dopo l’acquisto, ad esempio, dopo la vendita di una camicia il venditore potrebbe inviare un’email dove suggerisce l’acquisto di un pantalone che si abbina perfettamente e che ha un prezzo molto vantaggioso.
Il neuromarketing, in quanto disciplina emergente, ha dei limiti che concernono l’incompleta comprensione del cervello umano, ma dall’altro lato già suscita dei dilemmi etici sul suo utilizzo. L’associazione nordamericana Commercial Alert ha realizzato una petizione contro l’uso delle tecniche di neuromarketing, enumerando le possibili conseguenze negative dell’uso di queste. Le critiche a questa disciplina riguardano, ad esempio, l’eventuale uso di queste conoscenze da parte di aziende promotrici di attività o di prodotti come tabacco o fast-food oppure le eventuali conseguenze della creazione di campagne di propaganda politica troppo efficaci.
AAA: cercasi esperienze omnichannel
Quante volte cerchiamo nelle attività di tutti i giorni customer experience personalizzate? E questo vale sia per i canali online ma anche per quelli offline. Non vogliamo essere uno dei tanti, ci piace essere considerati unici e vivere esperienze fluide, customizzate e sinergiche. Questa è l’assunzione di base dalla quale partire per comprendere meglio le dinamiche di questo fenomeno, confermato anche dall’ultima ricerca dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience del Politecnico di Milano dove emerge in modo chiaro che c’è un aumento nella consapevolezza degli utenti verso l’omnicanalità, ma l’implementazione lato aziende è ancora limitata.
Questo naturalmente richiede un notevole sforzo da parte delle aziende in termini organizzativi, perché le attività vanno presidiate e poi fatte evolvere secondo una roadmap chiara e condivisa, e di processo, perché i flussi di lavoro sono complessi e devono essere ben strutturati per facilitare la raccolta e l’analisi dei dati. La complessità del processo è tale da impattare su tutta l’azienda, ovvero dalle risorse umane all’assistenza e dalla prevendita alla supply chain, basti pensare ai numerosi momenti di interazione tra azienda e utenti (es. packaging, supporto via telefono o via chat, gentilezza degli operatori). Gli utenti oggi sono disposti a spendere qualcosa in più a fronte di un servizio migliore, coinvolgente e semplice e questo incide parecchio sul cambio di prospettiva delle aziende, che devono lavorare nella direzione volta a massimizzare il Customer Lifetime Value, l’indicatore che misura i profitti prevedibili in base alla relazione con i clienti nel tempo.
È chiaro che diventa fondamentale per le aziende strutturare in primis il Customer Lifecycle Journey attraverso l’ascolto degli utenti, comprendendo i loro bisogni primari, le esigenze e i desideri, mappando e definendo i requirement così da individuare e impostare i canali di comunicazione online e offline e i touchpoint. Tale processo non resta scolpito sulla pietra e deve sempre essere messo in discussione attraverso un programma di Voice of the Customer, in cui l’unico obiettivo è comprendere come innescare meccanismi di miglioramento continuo al fine di massimizzare la fidelizzazione del cliente.
La tecnologia è matura, copre qualsiasi tipo di ambito di applicazione e offre supporto in tutte le fasi del Customer Journey basti pensare ai wearable nel settore sanitario per il monitoraggio continuo dei pazienti, agli smart mirror nel settore retail che consentono ai clienti vivere un’esperienza molto interattiva e personalizzata nei camerini di un negozio di abbigliamento. Infatti, in quest’ultimo esempio i vestiti introdotti all’interno del camerino, vengono riconosciuti dallo specchio intelligente che consente al cliente di scegliere, senza uscire, differenti colori, taglie o modelli suggeriti proprio dalla tecnologia. Queste informazioni sono poi condivise in real time con i commessi del negozio che possono così portare al cliente gli abiti richiesti e anticipare alcune scelte in funzione delle sue esigenze più specifiche. I dati generati durante il processo vengono poi raccolti, memorizzati e sfruttati dal brand in modo da poter suggerire altri prodotti e offerte personalizzate sulla base dei gusti e delle prove effettuate. Tali tecnologie offrono esperienze di shopping multicanale, coniugando le potenzialità dell’e-commerce ai vantaggi esclusivi dell’acquisto in-store.
In conclusione, il percorso da intraprendere per i brand è molto chiaro, oggi non è più concesso ignorare le esigenze dei clienti, tuttavia imprenditori e manager devono essere disposti a cambiare approcci di relazione, devono comprendere l’importanza di co-progettare le experience attraverso il coinvolgimento degli utenti e trasformare il valore dei dati in azioni concrete che massimizzano i risultati di business.
La sostenibilità nel settore tessile passa (anche) dalla comunicazione
L’industria tessile ad oggi è responsabile di circa l’8% delle emissioni globali di gas serra e rappresenta una delle principali cause di inquinamento delle acque in tutto il mondo. Negli ultimi 15 anni la produzione di abbigliamento è raddoppiata, mentre il tasso di riutilizzo e riciclaggio nell’industria è sempre molto basso, rendendo caldo anche il tema dello spreco: ogni secondo nel mondo, un camion di rifiuti tessili viene bruciato o smaltito in discarica. Ad oggi è chiaro che il modello di produzione proposto dal fast fashion è insostenibile, producendo a ritmi vertiginosi capi che hanno una scarsa durata, di bassa qualità e difficilmente riciclabili.
Lo scorso 23 Novembre un’inchiesta di Greenpeace ha portato alla luce quello che c’è dietro al modello di business del gigante cinese di ultra-fast fashion che nel 2020 ha guadagnato quasi dieci miliardi di dollari: Shein. Il caso ha avuto risonanza a livello globale, smascherando un modello di produzione che non è sostenibile né a livello sociale, né ambientale. La sezione tedesca dell’organizzazione ambientalista ha preso in esame 47 prodotti tra abiti e calzature per uomini, donne e bambini, e ha scoperto che il 15 % di questi conteneva quantità di sostanze chimiche tossiche superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee.
Il secondo tema che è stato portato alla luce sul caso Shein riguarda la sostenibilità sociale del suo modello di business. L’inchiesta “Untold: Inside the Shein Machine”, realizzata dalla reporter Iman Amrani, ha rivelato lo sfruttamento della manodopera attuato da questo modello di produzione: diciotto ore di lavoro al giorno, nessuna festività e stipendi bassissimi, mostrando alcuni video e audio registrati di nascosto all’interno di due fabbriche a Guangzhou.
Volgiamo sottolineare che ci sono anche grandi marchi dell’industria del fast fashion che cercano di andare verso un modello più sostenibile, e di comunicarlo nel miglior modo possibile, un esempio di questo è Zara. Inditex, la società madre di Zara, già nel 2018 ha reso pubblici degli obiettivi concreti di sostenibilità dell’azienda, dichiarando che entro i prossimi 6 anni utilizzerà solo cotone, lino, poliestere più sostenibile o riciclato, eliminerà tutte le plastiche monouso dai negozi e si impegnerà nell’inviare ad appositi centri di smaltimento tutti i rifiuti prodotti negli uffici e nei negozi per il riciclaggio e il riutilizzo, installerà impianti di raccolta differenziata degli indumenti in tutti i suoi negozi, e i vestiti raccolti saranno donati, riutilizzati, o riciclati. Ha inoltre aderito alla campagna Detox My Fashion lanciata da GreenPeace per ridurre l’uso di sostanze nocive nell’intera filiera tessile.
Quando si parla di grandi catene di distribuzione siamo comunque restii nel vedere davvero dei progressi dal punto di vista della sostenibilità, e a distinguere quando il tema viene affrontato in modo serio rispetto a quando si tratta di una strategia di greenwashing. Un esempio ne è la la collezione “Conscious” di H&M, una linea di abbigliamento “sostenibile” del brand ampiamente messa in discussione dalla Norwegian Consumer Authority, la quale ha contestato che sulle etichette di questa collezione mancano le informazioni per capire perché dovremmo acquistare quel “prodotto sostenibile”, anziché un qualsiasi altro prodotto presente nel negozio. Quindi un problema di trasparenza. La sostenibilità nell’industria tessile è molto più complessa del semplice tessuto utilizzato, non riguarda solo l’impatto ambientale di un singolo materiale, bensì copre diversi aspetti sociali.
Dall’altro lato esistono grandi brand del settore della moda il cui impegno nella sostenibilità è tangibile e viene considerato non solo un dovere etico ma anche uno strumento competitivo sul mercato, vogliamo infatti citare l’operato di brand sostenibili come Stella McCartney, etichetta di lusso comprensiva di capi e di accessori prodotti senza derivati animali che ha visto la designer inglese ricevere nel 2018 il Global Voices Award, un prestigioso premio per la proposta di una moda sostenibile. Altri due brand di si può apprezzare l’operato sono Patagonia, brand specializzato in abbigliamento tecnico outdoor, fondato nel 1973 e diventato un marchio di moda ecosostenibile, utilizzando esclusivamente materiali ecosostenibili dove è garantito il benessere degli animali e i filati raccolti in aziende tessili, ne solo esempio i suoi piumini eco friendly la cui imbottitura è costituita da piume 100% tracciabili. Tra questi citiamo anche Timberland, che ha dimostrato un costante impegno nel creare prodotti responsabili verso l'ambiente, con l'utilizzo di materiali organici, riciclati e rinnovabili, inoltre, in tutti gli store monomarca d'Europa i clienti possono portare in negozio le loro scarpe usate di qualsiasi marchio che poi verranno o regalate o riciclate.
In conclusione, nel settore tessile si sente sempre più il bisogno di mettere in atto azioni tangibili per dimostrare il proprio impegno nella sostenibilità, e in secondo luogo di comunicarlo in modo efficace al consumatore finale, con trasparenza.
Citiamo infatti la recente nascita del network Slow Fiber che si pone l’obiettivo di divulgare la conoscenza dell’impatto che i prodotti tessili hanno sull’ambiente, sui lavoratori della filiera e sulla salute dei consumatori per diffondere una nuova etica e cultura del vestire e dell’arredare.
Il progetto nasce dall'incontro tra Slow Food e alcune aziende della filiera tessile che vogliono rappresentare il cambiamento positivo attraverso un processo produttivo sostenibile. L’impegno della rete è volto alla creazione di prodotti Belli, Sani, Puliti, Giusti e Durevoli.
La forza del progetto Slow Fiber risiede nelle aziende e nelle persone coinvolte, che ogni giorno si fanno portavoce di questi valori e operano nel concreto per renderli possibili e tangibili, sostenendo campagne di sensibilizzazione attraverso la testimonianza e la partecipazione diretta delle aziende che quotidianamente operano nel rispetto della sostenibilità ambientale e sociale.
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